“Un produttore di sacchetti in plastica tradizionale oltreconfine, dovrebbe prevedere la produzione dei suoi prodotti con più spessori in base alla tipologia di cliente del suo rivenditore in Italia. Vincolo impossibile da rispettare anche per le poche società estere che ripongono ancora un minimo di fiducia nel nostro sistema”
Il Consorzio CARPI, in qualità di rappresentante di alcune delle principali realtà operanti nella raccolta e nel riciclo degli imballaggi in plastica terziari, vuole mettere in evidenza come il divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica non biodegradabili da parte del Governo italiano, sia in aperto contrasto con le regole di una qualsiasi economia di mercato che si definisca libera.
Non è infatti necessario l’intervento dell’Unione Europea, che punta a colpire ancora una volta le troppe criticità di adeguamento del nostro sistema legislativo a quello comunitario, per capire che il bando dei sacchetti di plastica non può essere l’origine di tutti i mali contro l’inquinamento.Imporre la commercializzazione o meno di un prodotto, a favore della salvaguardia e tutela ambientale, deve essere il risultato di una scelta mirata, altamente studiata e non dettata da scelte di convenienza.
La vicenda si arricchisce ulteriormente se si fa riferimento all’aspetto tecnico dell’intera vicenda. Il decreto interministeriale in esame prevede infatti degli spessori precisi in base all’utilizzo finale dei sacchetti stessi. Come a dire che un qualsiasi produttore di sacchetti in plastica tradizionale oltreconfine, dovrebbe prevedere la produzione dei suoi prodotti con più spessori in base alla tipologia di cliente del suo rivenditore in Italia. Questo vincolo di produzione, impossibile da rispettare, causerebbe un ulteriore limite sia alle aziende italiane sia alle poche società estere che ripongono ancora un minimo di fiducia nel nostro sistema legislativo e politico.
La posizione del Consorzio CARPI contesta quindi non tanto l’oggetto del bando, ossia i sacchetti di plastica tradizionali, quanto le modalità con cui l’amministrazione pubblica ha deciso di operare, più precisamente senza effettuare i dovuti accertamenti pervalutare il possibile danno economico e sociale che si andava generando. Scelta, quella di mettere al bando i sacchetti di plastica tradizionali, effettuata sulla base di una tutela ambientale non quantificabile e tantomeno certa, ma solamente guidata da una eccessiva preoccupazione generale, che ha portato il nostro sistema politico a essere incapace di compiere scelte adeguate e in linea con i principi europei.
Senza nulla togliere alla più che lodevole e condivisibile lotta all’inquinamento, a cui contribuisce lo stesso Consorzio CARPI promuovendo politiche di sensibilizzazione su tematiche inerenti la gestione e il riciclo dei rifiuti in plastica, è innegabile che la messa al bando dei sacchetti in plastica non biodegradabili ha creato non pochi problemi alle aziende del settore. Infatti, se alcune di queste sono riuscite a riconvertire i propri impianti di lavorazione per adeguarsi alle nuove richieste del mercato, altre stanno soffrendo gravi difficoltà economiche che, in alcuni casi, potrebbero portare addirittura alla chiusura.
Tutto questo in un contesto in cui non è ancora stata fatta piena chiarezza sui reali benefici dei sacchetti biodegradabili rispetto a quelli tradizionali. Il vero problema non risiede tanto nel tipo di materiale con cui sono prodotti i sacchetti, quanto piuttosto nella mancanza da parte dei cittadini, e a volte degli amministratori, di una corretta cultura e conoscenza delle modalità di smaltimento delle bioplastiche, dei processi di riciclo della plastica e del suo riutilizzo come materia prima seconda. Per quanto la bioplastica rappresenti un materiale innovativo, è necessario tenere presente che non tutte le plastiche sono compatibili tra loro e che i sacchetti biodegradabili devono essere considerati come rifiuti organici. Questo per evitare seri problemi sia all’ambiente, sia nelle fasi di riciclo.
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